Quel che resta di Emma

Il senso della vita di Emma

di Fausto Paravidino

con Fausto Paravidino, Iris Fusetti, Eva Cambiale, Jacopo Maria Bicocchi, Angelica Leo, Gianluca Bazzoli, Giuliano Comin, Giacomo Dossi, Marianna Folli, Veronika Lochmann, Emilia Piz, Sara Rosa Losilla, Maria Giulia Scarcella.

 

Backstage & Places Gallery

 

Not one word.

 

non una parola. nie een woord nie. jo një fjalë. አንድ ቃል አይደለም. لا كلمة واحدة.ոչ մի խոսք: bir söz deyil. ez hitz bat. এক শব্দ না ні адно слова. မဟုတ်တဦးတည်းစကားလုံး။ ni jedna reč. нито една дума. no una paraula. walay usa ka pulong. ani jedno slovo. palibe mawu amodzi. 沒有一個字。한마디도 아니야. micca una parola. pa yon mo. ne jednu riječ. ne peyva ikke et ord. אף לא מילה אחת. ne unu vorto. mitte üks sõna. hindi isang salita. ei yhtä sanaa. pas un mot. gjin wurd. chan e aon fhacal. non unha palabra. nid un gair. არა ერთი სიტყვა. 一つの言葉ではない。ora siji tembung. ούτε μια λέξη. એક શબ્દ નથી ba kalma ɗaya ba. ʻaʻole hoʻokahi hua’ōlelo. एक शब्द नहीं tsis yog ib lo lus. ọ bụghị otu okwu. tidak satu kata pun. not one word. ní focal amháin. ekki eitt orð. ಒಂದು ಪದವಲ್ಲ. бір сөз емес. មិនមែនជាពាក្យមួយ។ эмес, бир сөз. ບໍ່ແມ່ນຄໍາຫນຶ່ງ. ne viens vārds. ne vienas žodis. kee Wuert. ниту еден збор. ഒരു വാക്കുമാത്രം. bukan satu perkataan. tsy misy teny iray. mhux kelma waħda. kaua tetahi kupu. नाही एक शब्द. ганц үг биш. एक शब्द होइन। ikke ett ord. niet één woord. نه یو کلمه نه یک کلمه nie jedno słowo. não é uma palavra. ਨਾ ਇੱਕ ਸ਼ਬਦ. nu un singur cuvânt. ни одного слова. leai se upu se tasi. ни једна реч. ha ho lentsoe le le leng. kwete shoko rimwe chete. هڪڙو لفظ ناهي. එක වචනයක් නොවේ. nie jedno slovo. ne ena beseda. ma aha hal eray. ma aha hal eray. teu salah kecap. inte ett ord. si neno moja. на як калима. ไม่ใช่คำเดียว ஒரு வார்த்தை இல்லை. nicht ein wort. కాదు ఒక పదం. tek kelime etmeyin. не одне лово. nem egy szó. ایک لفظ نہیں. bir so’z emas. không một từ. akukho linye igama. ניט איין וואָרט. kii ṣe ọrọ kan. hhayi izwi elilodwa.

Il Castello di Zak

Se qualcuno ti chiedesse di poter fotografare casa tua ed entrare nella quotidianità del tuo vivere quotidiano senza nemmeno conoscerti… cosa risponderesti? Sei un artista e queste cose le saprai sicuramente.

Jemai Zakaria.

Il castello di Zak è casa. E in quel senso che la parola home esprime meglio. Tu lo aspetti, lui arriva e ti fa cenno con la mano di seguirlo. Se con te hai qualche birra, tanto meglio. Ti porta nel sancta sanctorum, il centro del Castello, il cuore pulsante del suo mondo, riscaldato da una stufa e con alle pareti i suoi primi murales o la tela di una giovane studente dell’Accademia. Devi armeggiare per avere la luce lì dentro. Perché la corrente c’è, la produce un pannello solare, ma solo di giorno e per poche ora la sera, l’accumulatore non basta, ce ne vorrebbero tre. In più magari qualcuno si introduce di nascosto per fare foto o per rubare. Zak cammina nervoso, che quasi non mi guarda; gli hanno rubato una batteria di riserva per il cellulare e una presa multipla. Sono piccole cose che per lui contano molto. Allora mi dice che deve andare a chiedere di sotto, se qualcuno ha visto o sentito qualche cosa. E mi fa cenno che intanto posso fare degli scatti, mentre sparisce oltre una porta.

Sapete quando da piccoli vi trovate ospiti di una vecchia zia per il tè e improvvisamente lei vi lascia soli in soggiorno con davanti la tazza fumante e una vasca di biscotti? Uno ci si butta con l’imbarazzo di chi sa che da un momento all’altro può essere scoperto con le guance piene di dolci. E mi assale una sorta di timore, di rispetto reverenziale che mi porta a scattare poco. Perché quello che osservi non è un museo a cielo aperto, o semplicemente il tempio della street art, come molti lo hanno chiamato. Non è solo una bella location per fotografie. Il castello di Zak è come un organismo, un teatrum vitae; è la rappresentazione reale di ciò che la fantasia di Zakaria produce. Come una biblioteca di espressioni artistiche, di murales, di oggetti, libri, bombolette, colori, tele, rose sul pavimento, vestiti, pneumatici e cornici. E nulla, ma proprio nulla sembra in disordine o fuori posto.

Ti dico sinceramente che non ho creato questo posto per gli altri, ma per me. E mai diventerà un luogo pubblico per fotografare soltanto… ma un angolo di vita in una città di plastica dove tutto si può. Ma dove tutto svanisce presto.

Ci sediamo al tavolo, beviamo una birra. Zak mi racconta della guerra quando era soldato per la Lega Araba, quando ha dormito su una pila di cadaveri. Delle due lauree e di quando lavorava come traduttore. Di sua figlia – gli occhi si illuminano – che è campionessa italiana di lancio del giavellotto. Mi parla di qualcosa che ha fatto e ha cambiato la sua vita. Capisci che se ti fermi alle apparenze scopri ben poco di quel che c’è dentro. Che attraverso quattro vetri rotti si può capire ben poco della complessità di un edificio. O di un uomo.

La rabbia per il furto ora è passata. Zak si rilassa e sorride.

Lui fa le foto tutti i gironi delle pareti del Castello, con il suo cellulare. Lo spazio e le pareti cambiano, mutano al cambiare della luce. Perché di mattina arriva un rosso eccezionale dall’autostrada e al tramonto le ombre creano effetti mozzafiato. E io mi faccio un giro, visito tutte le stanze, con la gioia che solo la luce delle 17:00 a ottobre ti può dare. E più faccio foto, più mi rendo conto che fotografare il Castello è un po’ come fotografare sempre Zak.

Io di scatti ne ho fatti parecchi. Ma molti me li tengo per me. E avrò altre occasioni, ne sono sicuro. Perché il Castello di Zak è un luogo da rispettare, una casa con le regole, poche e semplici ma da seguire con attenzione. Se volete farvi un giro contattate lo zio Zak, quando avrete l’ok portate una cassa di bottiglie d’acqua e qualche birra, che è sempre gradita, e le vostre scarpe con voi dentro, tutti interi. Portate tutto quel che siete che è più facile condividere. Perché il Castello è condivisione.

Se volete andare al Castello solo per fare foto, beh… la fila è lunga.

PS: Le rose a terra Zak le ha messe per insegnare a fare molta attenzione quando si cammina. Le cose che cerchi, le cose importanti che contano, potrebbero essere proprio lì. Sotto il tuo naso.

13.000 giorni di Micah P. Hinson sulla Terra.

di jackfullofgrace.

“Perché si finisce comunque nei guai quando ci si mette lì a cercare di spiegare precisamente cosa significhi un documento mistico”.
Lester Bangs.

A Roma il 2 aprile è atterrato Micah P. Hinson col suo disco volante invisibile. Niente fari, niente luci colorate e Richard Dreyfuss con la sua montagna di purè.

Sia ben chiaro, non di vero alieno si tratta. Lui, per fortuna, è fin troppo umano. Sono Memphis e tutta la cultura musicale che si porta appresso ad essere anni luce lontano da qui. Sembra proprio che quel posto nel Tennessee sia rimasto l’ombelico di un mondo che chiamiamo musica blues, gospel, folk e rock & roll; con tutti i figli legittimi e non che queste quattro parole hanno partorito fra le pagine delle riviste di settore.

Hinson arriva proprio da lì, da quell’ombelico. Cresciuto poi nel cuore desolato e pianeggiante del nuovo continente, ad Abilene, in Texas. Letteralmente rigettato da una famiglia oltremodo conservatrice, ha preso il volo grazie alla droga, ad una modella di Vogue e al carcere: medaglie che, fin da tenerissima età, sul curriculum di unsinger/songwriter (adoro questa parola…) pare contino un sacco. Soprattutto se sei un maledetto centauro con la chitarra elettrica sulla spalla.

Che poi, a dire il vero, il nostro è cosa diametralmente opposta ad un maledetto centauro con la chitarra elettrica sulla spalla. Magro, al limite del rachitismo, Hinson è il ritratto di un nerd qualunque. Ricorda tantissimo il giovanissimo Bob Dylan, man of constant sorrow, che cantava le ballate di Woody Guthrie.

Di antieroi, si sa, il rock ne ha sfornati a profusione, ma nerd non se ne contano molti. Magari Elvis Costello. Johnny Cash aveva il mantello nero, lui fondi di bottiglia e la sigaretta con il bocchino. Sfido a trovare qualcosa di altrettanto bislacco e prodigioso insieme.

Perché ascoltarlo quindi? Innanzitutto per la sua voce.

Raccontare una voce è l’impresa più complicata. Una delle descrizioni che amo di più è quella di Daniel Durchholz nel suo Musichound Rock: The Essential Album Guide, dove racconta così la voce di Tom Waits:

It was soaked in a vat of bourbon, left hanging in the smokehouse for a few months, and then taken outside and run over with a car.

Che tradotto sarebbe: “era come immersa in un tino di whiskey, poi appesa in un affumicatoio per qualche mese e infine portata fuori e investita con una macchina”.

Facile, socchiudendo gli occhi, immaginare quella voce roca, profonda, giungere dal fondo della scala di una cantina in un negozio di liquori della California; ovattata come la testa dopo il colpo di un guantone da boxe con dentro un ferro di cavallo. Un pugno che in qualche modo ti attraversa, come quel brivido che si prova quando, dopo una mezza sbronza, si tenta con sforzo cabarettistico di mettere a fuoco un bicchiere o il sorriso di una ragazza, cercando di rimuovere il pensiero che poi dovrai pure guidare. E, infine, sulla strada di casa, tra un incrocio e l’altro, abbandonati i tuoi scatoloni di articoli, saggi, metodologie e breviari per coro a due voci, ecco finalmente la tua voce, insieme a quella che esce dagli altoparlanti.

Una voce, una bella voce, scava nel profondo, portando in superficie tutti quei significati del testo che un artista sa senza troppi fronzoli raccontare, come in un’intuizione, lasciando a noi il problema dell’interpretazione.

Ecco, la voce di Micah P Hinson è una di quelle che mi fa smettere in continuazione di scattare foto e porta con sé un dolore nascosto dietro una tranquillità innaturale. Una voce che unisce la vacillante intonazione e i ricordi amari di Nick Cave, quel modo di sussurrare la poesia di The Ghost of Tom Joad di Springsteen solo, nel suo studio di registrazione e l’ironia disillusa del migliore Johnny Cash, quello degli American Records. Per usare una bella frase ad effetto: una voce che non cancella ma benedice tutti i peccati del mondo, magari con un sorriso sornione dietro due fondi di bottiglia attaccati con lo scotch. Teatrale, quando rallenta, oppure sospesa e strozzata in gola. Quando la sua penna d’oca pensa da sola ai modi in cui lei tornerà indietro per ucciderlo. C’è una sorta di coscienza dismessa nelle sue canzoni, di placito dondolare di sentimenti oscuri. Come nelle foto con tanto contrasto, dove il buio serve alla luce e viceversa.

Poi c’è la musica. La musica delle canzoni è quello strano essere che mastica i significati che le parole esprimono e li sputa fuori trasformati. Li piega ad un principio sinestetico che proprio nella canzone, come micro unità drammaturgica, trova la sua massima espressione.

All’esame di maturità un professore di lettere molto accorto mi chiese se avvertissi l’esigenza di inserire i testi di Dylan, di Lou Reed o di Nick Cave nelle antologie scolastiche. Io riposi di sì e concordammo sul fatto che la musica poteva restare fuori perché soggetta a libera interpretazione. Ora posso dire che in parte mi sbagliavo. Solo in parte, perché la musica è sì quello strumento affilato e consapevole che innalza il testo poetico e lo arricchisce, lo sventra, lo schiaccia e ancora lo stira per farne uscire tutto il potenziale espressivo; ma è anche capace di evidenziare, se cambiata, nuovi orizzonti di significato del tutto imprevedibili.

Hinson maneggia con grande capacità generi diversi: dal rock al blues, passando per il country, con qualche piccolo rigurgito punk. Negli arrangiamenti è semplice, con poche timbriche tutte ricercate e dosate davvero bene. Nel punto di contatto tra la sua parola e la sua musica pulsa il cuore della sua arte: la chiarezza e l’onestà del dolore. Ascoltare Micah P. Hinson è, a conti fatti, un’esperienza sonora avvolgente. Vederlo dal vivo aggiunge, se possibile, qualcosa in più. Un artista onesto, senza fronzoli, apparentemente fedele a sé stesso. Se finge, insomma, lo fa veramente bene. Sulla chitarra viaggia leggero e convive con lo strumento nel rapporto carnale e feticista quasi come un musicista jazz. Ogni tanto il fumo della sua sigaretta si confonde con il groviglio di corde acuminate che spunta dalla paletta e con i lunghi feedback dell’amplificatore. È proprio questo il suono che mi piace. Spero che abbia la forza di non fagocitare la propria energia e di non essere inghiottito.

Notevole la band che lo ha seguito nelle date italiane, ovvero Francesco Cerroni (basso), Andrea Ruggiero (violino) e Simone Prudenzano (batteria). Scelta ottima a mio avviso, per compattezza di suono, feeling e carattere. Saper accompagnare una personalità artistica forte è un’arte ed è una di quelle cose che, più che la musica, te la insegna il teatro.